NEIL YOUNG
recensioni


NEIL YOUNG


Artista fra i più influenti di sempre, autore sregolato di country-rock epidermico, ma nel contempo meditato, Neil Young ha raffigurato con le sue ballad introverse un’ America altra, lontana dagli stereotipi dominanti.


Padrino ideale tanto del punk che dell’alternative anni ’90, padre putativo dei Nirvana come dei Built To Spill, finanche dello slo-core, principale ispiratore dei REM, il canadese Young esordisce con un album omonimo, considerato di transizione. Dell’anno dopo (1969) è Everybody Knows This Is Nowhere, del 1970 il più leggero After The Gold Rush. E’ un folk-rock fatto di potenti riff chitarristici, che alterna cavalcate elettriche a ballad introverse, fagocitanti una miriade di suoni. Introversione e nevrastenia, a metà strada fra Leonard Cohen e Van Morrison, lontano forse dalle lande di un Buckley, perché troppo epidermica, la sua musica è quella di un Dylan aggiornato alla zeitgeist anni ’70, alla post-psichdelia insomma, che dopo aver fatto sognare, si trasforma in un incubo.


E di incubi si tratterà in tutta la carriera del più cupo fra gli songwriter, al più notturno, capace di sfornare anche un album per il grande pubblico (Harvest del 1972, con i ritornelli più facili della sua carriera).


Se On The Beach del 1974 (con Revolution Blues, ricca di suoni come lo era stata Astral Weeks, ma più “cattiva”), segna un ritorno all’introspezione, Tonight’s The Night è forse il grande capolavoro di Young.


Mai come ora i brani sono coesi e vibranti. Come On Baby Let's Go Downtown parla da sola con la sua intro, epica e marziale, il brano younghiano per eccellenza, Mellow My Mind è una ripresa del Bob Dylan arringatore di folle dei primi ’60, ma con una vena dolciastra, ambigua e inusitata. La title-track sposta così il blues-rock su un piano che è metà strada fra il surreale e il metafisico. Altro blues scalcagnato è World On A String. Ma il blues-rock è solo la punta di un iceberg. Young cesella i brani migliori della sua carriera, come la notturna Speakin' Out, la triste litania di spiriti con magistrale introduzione di armonica di Borrowed Tune (un brano eterno, attuale allora come oggi), il crescendo spasmodico e colloquiale di Roll Another Number, la ballad dei perdenti per eccellenza (dalla quale forse prenderà le mosse un certo Tom Waits). Altri brani cardine sono la maschia Lookout Joe e l’atmosferica Tired Eyes. Opera di influenza incalcolabile, compiuta come un suicidio riuscito, punto di abbrivio per generazioni di indie.


Ancora meglio è forse Rust Never Sleeps, brillante aggiornamento della sua musica a quella della new wave allora dominante. Sugli scudi un inno come My My Hey Hey e un compiuto gospel come Powderfinger. I discorsi forse si sfilacciano in ariosi e potenti riff, la struttura è più vibrante ma meno meditata.


DISCOGRAFIA


Everybody Knows This Is Nowhere (1969) ****


After The Gold Rush (1970) ***


Harvest (1972) ***


On The Beach (1974) *** ½


Tonight's The Night (1975) ****


Rust Never Sleeps (1979) ****