recensioni


DAVID BOWIE, Heroes (1977)


David Bowie si affrancò definitivamente dalla musica di consumo con Low, primo album della trilogia berlinese, della quale Heroes fu invece il secondo e più significativo episodio.


Influenzato da una congerie di modelli, dall’arte espressionistica che ne raffigura la copertina, alla musica ambient del collaboratore-mentore Brian Eno, dal kraut-rock dei Kraftwerk alla pura avanguardia, segna la maturità artistica di quella che fu una delle più grandi icone pop.


L’album è diviso, sostanzialmente, in due parti, una costituita da brani pop sofisticati, l’altra da brani strumentali d’avanguardia.


Beauty And The Beast ha inizio con un pregevole fraseggio, che in seguito si tramuta in un canto androide inserito in una melodia accessibile. Gli inserti di synth e di percussioni elettroniche fanno il resto, coniando un nuovo tipo di brano pop che troverà non pochi epigoni nel corso degli anni ’80.


In Joe The Lion si sposano felicemente il chitarrismo di Fripp con il canto lascivo di Bowie che raggiunge vette inusitate nella title-track che pur non brillando particolarmente per originalità compositiva segna il culmine del suo talento interpretativo. Il canto di Bowie sembra peraltro superare la capacità espressiva della musica (tutto sommato monotono e, in fin dei conti funzionale all’interpretazione), passando con disinvoltura da un inizio di calma apparente ad una crescita esponenziale di emotività nella quale giunge a sgolarsi, in un eccesso di disperazione. Raramente il canto melodico ha raggiunto simili vette: è uno dei momenti più alti raggiunti dalla canzone pop ed anche i più grandi detrattori di Bowie non possono negare che si tratti della più grande canzone pop (intendendo per pop quello che rappresenta nell’immaginario collettivo) mai scritta.


Anticipato dal suono inusitato del sax, Songs Of The Silent Age segna il passaggio ad un nuovo registro del canto di Bowie, stavolta non distaccato o disperato, ma, oserei dire “invecchiato” e maturo.


Blackout è un altro saggio di bravura di Bowie che passa in rassegna tutti i possibili stati d’animo possibili, mentre il synth domina nella composizione, in perenne contesa fra l’avanguardia e la melodia.


Il carattere “new wave” dell’album sta proprio in questo. Pur non potendo certamente essere considerata pura avanguardia questa musica tende a lambirla e pur nei suoi limiti funzionali rappresenta un nuovo modo di fare, non soltanto musica pop sofisticata, ma finanche di fare musica.


Lo testimonia chiaramente V2 Schneider, dedicata i Kraftwerk, inaugurata dal suono trascendentale del sax, dominata dalle percussioni e dai cambi di tempo.


A questo punto il disco muta pelle coi droni – minacciosi quanti autoindulgenti – di Sense Of Doubt, con suoni vari e assortiti di vario genere tutto intorno, mentre frangenti di grandezza wagneriana (o faustiana) si insinuano dando luogo, stavolta, ad un’opera incompiuta.


Moss Garden, che ne costituisce il seguito, segna il dialogo fra strumenti elettronici e strumenti tradizionali orientali, in un clima di rinnovata emotività e spiritualità.


In Neukoln ritornano i droni minacciosi di Sense Of Doubt e il suono striozzato del sax, ma le partiture non raggiungono livelli d’eccellenza e, in ultima analisi i brani strumentali sembrano essere la copia sbiadita dei capolavori del kraut-rock e dell’ambient. Nonostante ciò occorre segnalare un indiscussa originalità nel modo di suonare il sax.


The Secret Life Of Arabia chiude l’album all’insegna di una musica pop raffinata, ma troppo autoindulgente e decisamente fuori luogo al cospetto del resto dell’album.