DARK SIDE OF THE MOON
recensioni




DARK SIDE OF THE MOON (1973)


Dark Side Of The Moon è il disco più famoso, pubblicizzato, venduto e osannato dei Pink Floyd . A detta di buona parte della critica è poco più di un’operazione commerciale, volta a trasmutare la psichedelia in musica da salotto.


I non pochi detrattori di questo disco lo considerano patinato, talvolta patetico, ricco di compiacimenti estetizzanti, monocorde. I fans, invece, ritengono che sia il Sgt. Pepper’s degli anni ’70, che non debba essere valutato solo lo spartito, che i testi siano un primo incoraggiante risultato di applicazione della filosofia nella musica rock. Secondo loro, Waters e Gilmour sono dei creatori di “cibo per le menti”.


In Dark Side Of The Moon, qualsiasi idea è sottesa ad un più vasto, ma, nel contempo, semplificato risultato. Esprimere in musica le angoscie dell’uomo moderno. I Pink Floyd ci proveranno nella celeberrima trilogia che comprende, oltre all’album oggetto di questa recensione, Wish You Were Here – sulla follia della civiltà industriale – e Animals – sulla decadenza del genere umano, trasfigurato in animale. Dark Side Of The Moon riguarda invece l’alienazione.


Come ho già avuto modo di affermare, se i Pink Floyd hanno avuto un merito, è stato quello – non solo e non tanto di trasformare in oro qualsiasi cosa – ma, soprattutto, di anticipare i tempi, di profetizzare, con le loro visioni, quel che poi sarebbe successo.


La loro lacuna era costituita da un’eccessiva tendenza alla semplificazione, aggravata da una scarsa competenza compositiva. Tutte le musiche dei Pink Floyd, in fin dei conti, sono solo delle banalissime melodie, in cui tutto ciò che possa essere articolato o difficoltoso viene bandito.


Tuttavia, il carattere profetico delle loro opere è indiscutibile. Chi, nel 1973, si occupava di alienazione? I Genesis , con i loro barocchi accademisimi da conservatorio, con stilemi mutuati dalla musica da camera medioevale? I King Crimson , con le loro epiche suites, a cavallo fra il barocco e il post-moderno? Gli Yes con il loro pomposo art-rock magniloquente?


Forse, i soli Van Der Graaf Generator erano gli unici a denunciare –dalla loro Manchester, della quale rappresentavano il sostrato proletario e suburbano – l’angoscia di vivere in musica, facendo fuoriuscire un malcelato disinganno nelle loro liriche lunghe e stranianti.


In tal senso, gli unici anticipatori della new wave risultano essere –almeno per quanto concerne le argomentazioni – questi due complessi britannici.


Inevitabilmente, i complessi tedeschi di quegli anni – fin troppo wagneriani per occuparsi di concezioni affatto contingenti – finivano per essere tagliati fuori da tali cimiteri emotivi. I Faust –forti di una concezione articolata ed angosciosa dello scibile – propugnavano un ritorno al caos primordiale in tutte le sue forme (Miss Fortune), forse la ricerca medesima del nulla. i Can ricercavano , non spazi siderali o riflessioni sul presente, ma un misiticismo che si ricollegava, a ben vedere, con le loro jams interminabili (Aumgn). Forse il significato medesimo dell’infinito.


Dal canto loro, i Pink Floyd, raggiungevano insperate vette nelle classifiche delle vendite, con un disco concettuale – concepito nella cucina di Wright – fatto di suadenti musiche di chitarra e tastiere, con testi leopardiani, sulla morte, il denaro, il tempo che fugge, la follia. Riuscire a banalizzare anche le angoscie esistenziali è stato uno dei meriti (o demeriti) della musica rock di questo tipo. Riuscirci dopo essere stati per dieci anni in classifica la missione (perfettamente riuscita) dei Floyd.


Dopo le brevi e insiginificanti Speak To Me e Breathe In The Air, in cui il melodismo dei Floyd raggiunge uno dei suoi culmini, forte di un testo malinconico e bucolico ( But only if you ride the tide/And balanced on the biggest wave/You race towards an early grave), lo strumentale On The Run sembra essere la ripresa di quel One Of These Days che due anni prima aveva così efficacemente mostrato le qualità pop-rock dei quattro di Cambridge.


La melodica Time –forse il miglior brano del disco, sicuramente quello che dimostra appieno le loro qualità – è un tentativo di applicare la filosofia al rock. Un testo ossianico (Tired of lying in the sunshine/staying home to watch the rain.You are young and life is long/and there is time to kill today) cupo, talora sarcastico, quando non scade nel banale (Plans that either come to naught or half a page of scribbled lines. Hanging on in quiet desperation is the English way.The time is gone, the song is over,Thought I'd something more to say), si conclude con frasi musicali piuttosto scontate, che fanno da contrappunto ad una concezione strumentale ultrasemplificata, ma non per questo deprecabile. Il brano, soprattutto, si fa forte di un assolo di Gilmour decisamente convincente. Il chitarrista, che con questo disco entra nel novero dei grandi, si riscatta appieno dopo una serie di prove decisamente mediocri (The Narrow Way, Fat Old Sun ).


I vocalizzi di The Great Gig In The Sky sono la fiera del già sentito. Il brano dominato dalle tastiere di Wright è uno dei più sopravvalutati di sempre. Un pezzo di atmosfera, con semplici accordi, e con dei vocalizzi che, in teoria dovrebbero essere il valore aggiunto dell’album, ma, di fatto, sono la dimostrazione di un’autoindulgenza – che mai potranno c’entrare con l’alienazione? – che li pone in forte defict rispetto ai quasi coevi Van Der Graaf Generator, che ai vocalizzi rispondevano con i tono bassi e –quelli si – veramente ossianici di Hammil.


Money, se è possibile, è ancora peggio. Che mai possa avere a che fare questa invettiva con l’alienazione? E che mai potrà avere a che fare quest’invettiva con questa musica (brutta copia dei King Crimson e di certo blues). Il testo poi, ancora una volta, è sarcastico, ma, di contro, rinunzia alle banalità. Sincero e spietato, Waters mette alla berlina il denaro (in effetti è stato una delle poche rock-star non ipocrite che io ricordi).


Non fosse per l’andamento sin troppo quieto e patinato, ,Us And Them è forse il primo brano di tutto il disco che abbia a che fare con l’alienazione, il tema di fondo di tutto l’album. Le tastiere dialogano con il sax in maniera troppo calma, fra i solchi è impossibile indovinare quel moto che dovrebbe far propendere per il male di vivere che, invece, il testo tratteggia ottimamente (Out of the way, it's a busy day/I've got things on my mind. For the want of the price of tea and a slice/The old man died).


Any Color You Like è uno sconcertante brano strumentale che non aggiunge una sola idea al disco.


Brain Damage , pur con tutti i suoi i limiti a livello compositivo, è uno dei migliori testi scritti da Waters. In frasi come The lunatic is in the hall/The lunatics are in my hall.The paper holds their folded faces to the floor/And every day the paper boy brings more There's someone in my head but it's not me. And if the cloud bursts, thunder in your ear/You shout and no one seems to hear. And if the band you're in starts playing different tunes/I'll see you on the dark side of the moon, si deduce tutta la profondità di questo autore.


La conclusiva Eclipse gioca con le stesse note di tutto il disco. Il testo è notevole. Waters sembra parlare con un suo doppio (uno specchio?), alternando banalità a frasi meditative (”And everything under the sun is in tune/but the sun is eclipsed by the moon."There is no dark side of the moon really."/"Matter of fact it's all dark."



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